Note sui primi due incontri del XVIII corso di Figline Valdarno

di Giuseppe Ceparano

Ogni volta che ritorno da Figline Valdarno sono come attraversato da una duplice sensazione, positiva e negativa, è come se da un lato qualcosa mi riempisse, e dall’altro qualcosa mi svuotasse. Io non sono tra i più vecchi frequentatori dei corsi residenziali di Figline, sono solo tre anni che li seguo con continuità. Oggi si è arrivati alla XVIII edizione, non ho avuto l’occasione di poter incontrare in quei luoghi, i maestri di cui tanto l’atmosfera di quei posti e di quei momenti è pervasa: Bruno Callieri, Arnaldo Ballerini e Lorenzo Calvi. Vedo in Gilberto Di Petta sempre vivo e vitale quel ricordo, ma si manifesta in tutta la sua pienezza quel fruscio di vento che riempie le vele e conduce verso nuovi orizzonti. Sento di Giampaolo Di Piazza l’aderenza al progetto essenziale della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica, quello di tenere insieme le “fronde sparte”. È come se tutti rispondessero al richiamo all’essere eterni debuttanti, che restituisce quella quota di giovinezza che non va mai perduta del tutto, proprio nei luoghi in cui ebbe i natali il filosofo Marsilio Ficino che nel testo Sopra lo Amore dice: “La giovinezza essendo a la voluttà inclinata non si piglia se non con l’esca del piacere: perché fugge i rigidi maestri.” Dopo anni in cui il Palazzo Pretorio ha fatto da cornice agli incontri, da quelle stanze che nell’ottocento furono riconvertite a carcere, ci ritroviamo adesso in una dimora costruita sul finire del 1300, un posto che ha conservato la dimensione del rifugio, per la quale a quei tempi fu costruita per stare lontani dai rumori della città. Nelle cui stanze ritrovarono ristoro, negli anni del Risorgimento anche i reali di Spagna e del Regno delle due Sicilie: Villa Casagrande. I corsi si tengono in quel luogo che una volta era la sala d’arme, dove non solo erano conservate le armi ma dove si impartivano lezioni sul loro uso: l’arte del combattimento che si insegna a bottega. Non so se sia stato il caso, o una strana volontà nascosta, ma sembra essere a bottega dai maestri e dalle maestranze.
Il corso residenziale di Figline Valdarno è il suono, l’eco della Scuola Italiana di Psicopatologica. Una formazione che dura nel tempo, senza una fine predefinita, che si rinnova con i tempi, che resta veglia come una sentinella. In cui viene restituito al “chiedere” al “domandare”, il vero potere trasformativo. Quello che passa non sono solo le informazioni, i vissuti dei relatori, le abili riletture dei “discussant”, ma soprattutto quello scuotimento atmosferico di chi ascolta, che sente dentro muoversi qualcosa, che crea le condizioni per il “domandare” ed il “chiedere”. Talvolta ci si riesce, talaltra si cade in ulteriori riletture, ma la cosa importante è che si creano le condizioni possibili per addestrarci a saper usare queste uniche armi di cui nella relazione terapeutica possiamo avvalerci, al fine di poter aprire i varchi, creare i guadi, verso progetti di mondo possibili.
Questi primi due incontri, dei sette totali, hanno visto alternarsi maestri e maestranze, da entrambi abbiamo raccolto esperienze vissute, ed abbiamo tentato di costruire dentro di noi quello spazio, quel tempo, quel mondo su cui far poggiare le riflessioni, che diventando nostre assumendo il carattere di meditazioni, per giungere ad affilare e caricare le armi del domandare e del chiedere.
Nel corso dell’incontro del 9-10 marzo c’è stata la nomina a Presidente Onorario della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica di Filippo Maria Ferro, è stato un momento intenso, l’emozione degli uni affezionavano quelle degli altri, rendendo l’atmosfera affettiva e sotto certi versi ed entro certi limiti familiare.

La presentazione del prof. Ferro è stato un viaggio nell’arte figurativa, mostrandoci in maniera magistrale come l’arte è allo stesso tempo oggetto del comprendere e soggetto che comprende.

Ascoltare il prof. Del Pistoia significa lasciarsi attraversare non solo dai contenuti del suo discorso, ma anche dai modi attraverso cui il discorso si dà, dove trapela sempre e comunque una certa passionalità, per il fare e il saper fare.
Il dott. Delladio, riproponendoci quella che fu la sua tesi sulla Rivista Comprendre, ci ha riportati inevitabilmente sui temi che nella rivista vengono ripresi.
Il prof. Dalle Luche ci ha accompagnati per mano nei sui studi di “patografia”, in quell’incrocio tra arte e psicopatologia, dove talvolta l’una presta il volto all’altra e talaltra accade che una delle due aiuta a disvelare l’altra.
Ad aprile, il 13-14, abbiamo avuto in cattedra Leonardo, Alessandra, Gaetano e Francesca, il momento della clinica del quotidiano, degli operatori sul campo, di quelli che giorno dopo giorno attraversano i servizi di salute mentale.
Il dott. Zaninotto ha lasciato emergere attraverso la metafora gastronomica, non solo la costatazione dello stato dell’insegnamento della psichiatria, ma anche un profondo desiderio di un ritorno all’insegnamento a bottega dai maestri.

Il tema dell’autolesionismo è stato declinato e sviluppato dalla dott.ssa D’Agostino a 360°, permettendoci letteralmente di affacciarci sul problema.
Il dott. De Mattia, ha saputo lasciar parlare i fatti, i luoghi e i vissuti, un’operazione sotto certi versi audace che è stata mirabilmente eseguita.
Home Treatment in Ticino non è solo un’esperienza che trae le sue origini da altre esperienze analoghe, la dott.ssa Aletti è riuscita a presentarla come un’ulteriore possibilità di cura, in cui si pone l’operatore ed il paziente in un continuo riconsiderare le proprie posizioni attive e passive.
Gli incontri di Marzo ed Aprile sono stati moderati in maniera magistrale e con un coinvolgimento personale e professionale da Di Petta, Rossi Monti, Fusilli e Aragona, il cui contributo ha arricchito ulteriormente.
Dopo questi brevi cenni sugli accadimenti resta da soffermarsi su quanto annunciavo all’inizio, in merito alla duplice sensazione. Ebbene sì, i corsi residenziali di Figline Valdarno mi rendono, ci rendono “stranieri”, come Meursault di Camus, scopriamo ogni volta sempre come fosse la prima, quanto lo straniero in noi rimane tale fino a quando un accadimento non lo mette in luce, facendoci uscire dall’ombra da cui da sempre soggiorniamo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *